26 maggio 2008

CASO Molinette: efficienza o sfruttamento?

Una multa per troppo lavoro,
il direttore generale Galanzino pronto alle dimissioni


TORINO. Nata all’inizio del secolo scorso l’Azienda Ospedaliera Molinette è il terzo ospedale d’Italia: 1200 posti letto, 5400 dipendenti, vari reparti di eccellenza tra cui il reparto di “Cardiochirurgia” diretto dal prof. Rinaldi, il “Centro trapianti di fegato” diretto dal prof. Salizzoni e “Nefrologia Dialisi e Trapianto” coordinato dal prof. Segoloni. Proprio questi reparti, però, sono costati una multa da 110 mila euro, inflitta dal Ministero del Lavoro per via delle eccessive ore di attività del corpo medico e paramedico. Una sola sigla sindacale delle oltre 30 presenti nel nosocomio (il sindacato degli infermieri Nursing Up - che ha la maggioranza di iscritti tra i paramedici), ha chiesto l’intervento dell’ispettorato del lavoro, che dopo un sopralluogo ha deciso di applicare una sanzione per punire i turni massacranti ed i troppi straordinari. Il Direttore Generale dott. Giuseppe Galanzino non ci sta a fare la parte dello sfruttatore dei lavoratori e pure ammettendo che nei due reparti i medici e gli infermieri siano sovraccaricati precisa che “in discussione c'è la vita umana” e non la produzione di un semplice bene effimero. Va da sé che fare il medico o l’infermiere non è un mestiere ma una missione, raggiungere l’eccellenza in un reparto non è solo una questione di prestigio ma anche un servizio indispensabile per i cittadini che sanno di poter contare su tecnologie all’avanguardia e su personale altamente specializzato.Quello che viene messo in discussione non sono i sacrosanti diritti dei lavoratori, ma la sanzioneinflitta pare dimostrare il contrario. Per ora è tutto fermo in attesa della risposta al ricorso gerarchico presentato dalla dirigenza. Il problema principale è che le Molinette si sviluppasu un area di circa 15.000 mq con 30 sale operatorie e 18 blocchi ognuno dei quali deve avere una propria equipe.“Più di quello che è stato fatto finora per la gestione del personale, non poteva essere realizzato, inoltre dall’inizio dell’anno sono state fatte 40 assunzioni e contiamo di farne ancora altre”, spiega il Direttore Generale. La mobilità tra i reparti è difficoltosa, oltre che per la questione della formazione di figure altamente specializzate che può durare dai 6 mesi ad 1 anno, anche perla mancanza di figure professionali visto che nel 2007 la richiesta di infermieri è stata più alta dell’offerta.“C’è una mancanza di vocazione e le cause vanno ricercate tra le mansioni poco specialistiche a cui, purtroppo, spesso i paramedici si devono prestare. Ad esempio negli ultimi anni c’è stato un aumento di malattie cardiovascolari in età avanzata, prendersi cura di questi pazienti non è quello che si potrebbe considerare un lavoro altamente specializzato, se si tiene conto dei bisogni di un anziano costretto per quasi tutto il giorno in un letto. Questo è un lavoro da cui noi italiani ci stiamoallontanando, noi ad esempio abbiamo alle nostre dipendenze 40 unità che fino a qualche mese fa erano considerati extracomunitari, persone che vengono dall’est Europa”.Comunque la dirigenza sta mettendo in atto una serie di iniziative per cercare di superare l’empasse. Un aiuto può venire dall’utilizzo di infermieri esterni per il reparto di cardiochirurgia o dall’incentivazione economica, oppure potrebbe venire dalla differenziazione dell’equipe di espianto, composta da un medico e da un infermiere che in qualsiasi momento del giorno o della notte in auto o in aereo si recano all’ospedale dove è custodito il corpo del donatore, da quella di trapianto.Ma il duro lavoro dei reparti spesso spaventa, “non esistono festività, a Pasqua le equipe sono state impegnate in 2 trapianti di reni e 4 di fegato uno dei quali è durato più di 11 ore, poi solitamente il lavoro si concentra il fine settimana, quando il fenomeno delle stragi del sabato sera, purtroppo, coincide con una maggiore disponibilità di organi, se a questo si aggiunge la reperibilitàe gli straordinari, ci si può rendere conto di quanto questa mansione può essere stressante”.Comunque i rapporti tra chi dirige l’ospedale, i primari dei centri di eccellenza e gli infermieri sono buoni, ognuno per la propria parte è conscio di far parte di un ingranaggio che deve essere ben oleato e molto unito, non sono ammesse esitazioni quando sono in gioco vite umane, ed è proprio per questo motivo che la multa subita dalle Molinette pare paradossale, evidenziando un vuoto legislativo, un buco nero in cui potrebbero cadere anche altre strutture d’eccellenza, aprendo unarincorsa verso la mediocrità per non incorrere in sanzioni. Un cittadino quando si rivolge ad un ospedale per una malattia grave, non domanda se un infermiere o un medico ha sforato il monte ore, chiede di essere ascoltato, chiede che gli siano fornite le cure migliori con i mezzi migliori, 110.000 potevano essere impegnati per il miglioramento delle strutture, visto che le Molinette ha anche un problema strutturale, è un ospedale vecchioed avrebbe bisogno di costosi lavori di ristrutturazione. Lo scorso anno in cardiochirurgia sono stato effettuati oltre 1000 interventi, con 177 trapianti di reni portando le Molinette ad essere il primo ospedale d’Italia, mentre 136 trapianti di fegato lo hanno portato ad essere il primo in Europa. “Io devo essere in grado di assicurare ai pazienti un centro di prim’ordine, sono pronto a dimettermi se la multa verrà confermata o se mi chiederanno di ridurre l’attività operatoria”, tuona Galanzino.

07 maggio 2008

Il sogno di Di Salvo nel degrado di Scampia



Le Vele: da utopia periferia…
E’ quasi finito il 1997 quando si mette in atto il piano per demolire definitivamente quello che era stato il sogno utopico di Franz Di Salvo, l’unico caso in Italia in cui un progetto di riqualificazione urbana passa per la demolizione di interi agglomerati: le famose Vele, simbolo del degrado del quartiere di Scampia.
Agli inizi degli anni sessanta, la Cassa del Mezzogiorno dà mandato a Di Salvo per la realizzazione di quello che doveva essere il fiore all’occhiello dell’edilizia popolare non solo per la città di Napoli, ma per l’intera nazione. Il progetto non delude le aspettative, due tipi di strutture, a torre e a vela, spazi giochi, centri sociali, scuole e attrezzature collettive, tutto quello che serviva alla creazione di un mega quartiere residenziale.
Ma l’Italia è il paese dei paradossi, il fiore è appassito prima ancora della posa della prima pietra, e si è trasformato, all’insaputa del progettista che non seguì le fasi di realizzazione in un pugno nello stomaco.
Le Vele, a causa di adeguamenti strutturali mal progettati, diventano tristi gabbie di 14 piani, con ascensori perennemente fuori uso, con la distanza tra i due corpi di fabbrica accorciata e con i ballatoi sospesi che, diminuendo lo spazio, interrompono i flussi appositamente studiati da Di Salvo per il ricambio d’aria e il passaggio della luce.
Così il progetto nato dall’ispira-zione delle "unitès d’abitations" di Le Corbusier realizzato a Marsiglia e le strutture "a cavalletto" di Kenzo Tange, si è trasformato in un carcere a cielo aperto, in cui le aspettative di interi quartieri di Napoli, lì deportati dopo il terremoto dell’80, sono state imprigionate e dove la fantasia dei bambini è stata schiacciata sotto il peso di tonnellate di cemento e ferro.
Ed ai 44.000 abitanti "legali" vanno aggiunti 60.000 abitanti "abusivi" che, oltre ad occupare appartamenti già assegnati, hanno murato scantinati e ballatoi, trasformando in scatole senza aperture spazzi destinati all’uso comune.
Eppure tutta la zona di Secondigliano, compresa la zona di Scampia, era zona di villeggiatura per gli antichi romani, dove canapa e frutta la facevano da padrone.
Da qui partivano i carretti che portavano le primizie e le prelibatezze nate da un suolo baciato dalla dea Cerere, fino alle case dei nobili e dei notabili della città di Napoli, i racconti parlano di distese profumate dei frutti più succulenti, dove le famose mele annurche giacevano distese su letti di paglia in attesa di una lenta maturazione.
Ma il ricordo di una terra fortunata ha lasciato il posto all’angoscia che ha provato chi, almeno una volta, si è fermato alla base di questi casermoni di ferro e cemento, i suoni e i profumi hanno lasciato spazio al degrado di un progetto d’avanguardia, pensato bene ma nato malissimo.
Tutto questo ha fatto sì che il nome Scampia sia andato ad ingrossare l’elenco delle periferie degradate d’Europa, assieme al quartiere Zen di Palermo e alle banlieue parigine, degrado e malvivenza che però cozzano con la forza di chi, in quelle zone resiste e cerca di sopravvivere, tentando di scrollarsi dalle spalle il peso di un nome carico di negatività.
La riscossa/riqualificazione passa per i centri di aggregazione, gli spazi sociali, per la nuova sede della protezione civile e della facoltà di medicina, ma dopo 12 anni ancora solo progetti, un centro commerciale che avrebbe impegnato circa 600 persone ed altrettante sarebbero state impiegate dall’indotto, occasione ormai sfumata. Il parco telematico è l’unico lavoro già consegnato, in concomitanza all’apertura delle strade a scorrimento veloce e della metropolitana, che, finalmente,in pochi minuti collegano la periferia al centro di Napoli.
Nel 1995 viene approvato il piano di riqualificazione, si decide di abbattere le vele, troppo costoso e difficile rimetterle in sesto e nuove anonime costruzioni cominciano a sorgere tutt’intorno a quel sogno trasformato in un incubo da cancellare.
Il primo tentativo di abbattere il fabbricato F (1997) è andato a vuoto, nonostante i 125 kg di dinamite posti alla base dei pilastri, la Vela è rimasta lì, claudicante, ma in piedi, a rappresentare il carattere e la forza di chi da quel quartiere non vuole andare via e tenacemente combatte tutti i giorni per cambiare non solo la propria vita ma anche di chi gli vive attorno, nonostante la camorra e nonostante le istituzioni.
Per molti giorni le immagini del gigante azzoppato hanno fatto il giro del mondo, per molti giorni gli abitanti di Scampia hanno finalmente avuto qualcosa di cui essere orgogliosi, la loro storia non si è lasciata cancellare semplicemente con un colpo di cassino. C’è chi sostiene tuttora che almeno una Vela bisogna lasciarla sù, riconsegnarla al quartiere sotto forma di spazi, quegli stessi spazi che erano stati strappati dal sogno di Di Salvo per ridare a quegli abitanti una memoria collettiva.
Una memoria che, altrimenti, avrebbero perso nuovamente.